articolo Tempo libero Passeggiata nel parco
Diario di un pellegrinaggio: la via Micaelica, da Rieti a l’Aquila freccegiovedì 19 settembre 2013

Quando comincia davvero un cammino, un pellegrinaggio, non saprei dire. Magari quando si inizia a preparare lo zaino, lo si tiene lì, per riempirlo via via, ed è già un’idea, un desiderio, un’attesa. Un andare. O ancora prima, quando si presenta l’occasione e si decide di partecipare e qualcosa si muove con te, ti accompagna nel ritmo familiare dei giorni. Magari anche con un po’ di apprensione perché è la prima volta, o perché le persone sono altre, o perché sei sola e senza punti di riferimento che non siano te stessa.

O forse solo quando indossi le scarpe predisposte per l’occasione – solitamente già collaudate -, metti lo zaino in spalla e senti il peso che porterai con te. Insomma non lo so e in fondo non è neppure importante. Perché ad un certo punto comincia. Cosa? Quello che noi, nutrita ed eterogenea compagnia, abbiamo fatto per quattro giorni lungo la via Micaelica, che da Roma arriva a san Michele Arcangelo in Puglia. Pellegrinaggio, viaggio a piedi, cammino, anche qui non è così importante dare sempre un nome a tutto, credo l’unica cosa che conti sia dare almeno a qualcosa un senso.

Si parte la mattina presto, il buio della città accesa da timide luci a darci il saluto. Il viaggio per arrivare a Rieti è lungo, ognuno vive una sorta di atmosfera che mi sembra navighi tra l’euforico e l’interrogativo. Non si sa cosa ci aspetta se non sulla scorta di esperienze precedenti (per chi le ha vissute) e il bello, nonostante ogni eventuale perplessità, ogni incognita di tipo personale o logistico, è proprio il non saperlo. La speranza di tutti, mi permetto di pensare? Stare bene, con se stessi e con gli altri.

Da Rieti prima tappa per arrivare a Cittaducale: allora si inizia davvero. Intorno colline morbide, colori di inverno, c’è il sole, da socchiudere gli occhi, poi lo abbraccia il cielo e scoppia in rosso e oro. Un bosco di silenzio se non per i nostri passi incerti, un sentiero che si apre in campi aperti, fatichiamo a trovare la strada; dentro ad un tramonto che porta con sé un sottile struggimento proseguiamo, sta per imbrunire, arriviamo a Cittaducale con il buio. Siamo alloggiati per la notte in una stanza messa a disposizione dal comune. E visto che siamo pronti a tutto, ci si adatta molto bene, freddo e bagno minimal non spaventano nessuno: siamo entrati nel luogo spartano e all’insegna della precarietà di un condiviso vivere essenziale.

Tra chiacchiere vivaci e concerti notturni degni della migliore orchestrazione - anche questo è condivisione … - si arriva al mattino. Nuovi passi ci aspettano, destinazione Borgo San Pietro. Siamo tanti, diversa l’andatura, ci consentiamo giustamente un’autonomia nell’andare, anche per economizzare i tempi e ridurre le attese, per poi ritrovarci nelle soste. Come? Beh, pellegrini moderni – ahinoi o per fortuna … - ringraziamo di certo per il bel tempo che ci accompagna e … i cellulari. Si sbaglia strada (anche si segue la guida "Con le ali ai piedi" di Angela Serracchioli, a volte le indicazioni sono poco chiare e mancano i segnali, ma dopo qualche tentativo ecco un bel sentiero nel bosco, un po’ selvaggio, tra rami e rovi, si va, fiduciosi, sembra non si arrivi da nessuna parte.

Ma è la filosofia del cammino, l’incerto accettato con serenità. Ripetute consultazioni, poi scelta unanime – si fa per dire, ma si deve pur provare, in caso si torna indietro – ed ecco il paese di Pendenza, da cui si risale fino a Capradosso, poi Casa Bianca. Tutto asfalto pesante per i piedi già stanchi, rimpiangiamo il bosco, e la discesa non è poi così indolore; il panorama prima monotono, chiuso, un po’ piatto, si apre nella inattesa e mutevole valle del Salto, con il suo lago; ora Petrella, poi Borgo San Pietro.

Fa freddo, siamo ospiti delle suore di Santa Filippa. Calzante metafora della vita, camminare a lungo in queste esperienze la svuota e al contempo la riempie, richiede un particolare impegno per essere altro da sé, per sollevare lo sguardo fuori e, in questa nuova attenzione, come anche nella solitudine, in qualche modo riuscire “ad amare la propria sorte”. E così forse se si parte pesanti, con lo zaino che è tutto ciò che siamo e il poco che in realtà ci serve davvero, il dono del cammino è misteriosamente quello di sentirsi mano a mano più leggeri nella libera gioia di esistere. Momenti di sconforto, aspettative deluse, dinamiche di gruppo che a volte non facilitano gli incontri, modi diversi di porsi, affinità che portano ad avvicinarsi, scoperte e istanti di bellezza, nel contatto con la terra che ci ridimensiona, nei piccoli momenti che sanno di pienezza … questo e altro ancora, dentro un cammino.

Da Borgo San Pietro lo sappiamo già che sarà tutta salita per arrivare a Santa Lucia di Fiamignano, ci scalderemo, grazie– diciamo così – alla fatica e all’amico zaino sulle spalle, la casa che portiamo con noi. Asfalto sempre poco gradito, lo sguardo corre nella valle aperta, il paesaggio si fa ampio, grandioso, strati di montagne come di altri mondi, si respira forte. Poi la neve, attesa, nuova di luce, intatta al passo; lasciamo orme, da una fessura si fa strada l’idea che come neve al sole si scioglieranno in noi nodi ruvidi e scomposti. Dall’alto di solito si deve scendere, prima o poi, e così è: scendiamo lungo un sentiero cespuglioso e panoramico, poi ancora strada asfaltata per arrivare a destinazione.

Alloggeremo presso la chiesa, proprio in chiesa, riadattando la disposizione dei banchi sui quali parte di noi dormirà. La chiesa è povera, come il piccolo paese, che, più di altri che abbiamo intravisto, è lontano da noi, fermo in un tempo sconosciuto, vecchio e senza cura, ma a suo modo ospitale, come noi cittadini “avanti” non sappiamo essere. Per il giorno successivo la guida segna 28 chilometri, in gran parte su strada, infatti tutta la prima parte sembra non finire mai, uguale a se stessa, siamo comunque un po’ dentro la storia, resti romani, di vita antica e battaglie lo testimoniano.
Chi vuole sceglie poi un percorso alternativo in mezzo alla neve, bello, sembra quasi una piccola festa, un’alternativa giocosa che ci porta in uno spazio aperto tra le montagne. Ci fermiamo per il pranzo sulla neve e i proprietari di una piccola casa ci offrono tutto ciò che hanno in un’ulteriore dimostrazione di calda e disinteressata accoglienza, dove una generosa gratuità che poco pratichiamo e conosciamo ci sorprende sempre un po’. Si scende poi lungo questo famoso tratturo in gran parte innevato con un panorama che cattura lo sguardo e poi ancora strada asfaltata in una discesa sulla quale le gambe camminano da sole e i pensieri sembrano fatti di vento.

A Villagrande di Tornimparte siamo accolti dal gentile signore della pro loco che ci fa visitare con orgoglio la chiesa di San Panfilo dove alcuni semplici dettagli in pietra e dei dipinti riportano allo spirito artistico del tempo. Si dorme in una scuola, le stanze pulite per l’occasione, riscaldate. Siamo ormai abituati, siamo in cammino da poco in fondo, eppure – strano concetto il tempo – come lo fossimo da sempre e queste fossero le naturali e consuete condizioni di vita. Quello che manca al lato pratico – certo tutti vorremmo una bella doccia e cose pulite … - sembra perdere di importanza.

Mentre acquista significato l’aspetto personale, emotivo, relazionale, di ricerca: un cammino condiviso è anche questo, esserci non solo per se stessi. Arriva l’ultimo giorno, i chilometri non sono moltissimi, ma impieghiamo più del previsto: non importa, il percorso è bellissimo, mutevole dentro i passi e gli occhi, sembra di arrivare in cima al mondo, come superstiti cui è concessa un’impensabile opportunità. Sotto l’Aquila, città che chissà verrà più risvegliata da un sonno pauroso. La Basilica di Collemaggio è immensa e disastrata, il freddo sembra anche quello dell’abbandono e del destino infausto che può colpire ovunque. Privilegiati noi. Sono quasi le sei quando si riprende la strada di casa.

Nel buio della notte che confonde, amplifica e non consente di ricollocare coerentemente ricordi e sensazioni, i pensieri si rincorrono come uccelli migratori su rotte antiche. Il tempo della strada. Il pellegrinaggio, lo chiamiamo. La vita, se è più di una parentesi. Leggo le profetiche e per me amorevoli parole di Raimon Panikkar (riferite certo a ben più rischiosi cammini): “Quando l’esperienza che questo pellegrinaggio è una via di non ritorno irrompe in te, scopri che tutte le tue conquiste storiche sono insignificanti, che il senso della Vita non si esaurisce nella storia ma respira con il cosmo e va oltre, verso il divino. E ti rendi conto che il cammino è verso nessun luogo, che è ora e qui, e che ogni passo – che è insieme il primo e l’ultimo – è il compimento del pellegrinaggio”.
©  RIPRODUZIONE RISERVATA

Valeria  Capuano - vedi tutti gli articoli di Valeria  Capuano



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Quando comincia davvero un cammino, un pellegrinaggio, non saprei dire. Magari quando si inizia a preparare lo zaino, lo si tiene lì, per riempirlo via via, ed è già un’idea, un desiderio, un’attesa. Un andare. O ancora prima, quando si presenta l’occasione e si decide di partecipare e qualcosa si muove con te, ti accompagna nel ritmo familiare dei giorni. Magari anche con un po’ di apprensione perché è la prima volta, o perché le persone sono altre, o perché sei sola e senza punti di riferimento che non siano te stessa.

O forse solo quando indossi le scarpe predisposte per l’occasione – solitamente già collaudate -, metti lo zaino in spalla e senti il peso che porterai con te. Insomma non lo so e in fondo non è neppure importante. Perché ad un certo punto comincia. Cosa? Quello che noi, nutrita ed eterogenea compagnia, abbiamo fatto per quattro giorni lungo la via Micaelica, che da Roma arriva a san Michele Arcangelo in Puglia. Pellegrinaggio, viaggio a piedi, cammino, anche qui non è così importante dare sempre un nome a tutto, credo l’unica cosa che conti sia dare almeno a qualcosa un senso.

Si parte la mattina presto, il buio della città accesa da timide luci a darci il saluto. Il viaggio per arrivare a Rieti è lungo, ognuno vive una sorta di atmosfera che mi sembra navighi tra l’euforico e l’interrogativo. Non si sa cosa ci aspetta se non sulla scorta di esperienze precedenti (per chi le ha vissute) e il bello, nonostante ogni eventuale perplessità, ogni incognita di tipo personale o logistico, è proprio il non saperlo. La speranza di tutti, mi permetto di pensare? Stare bene, con se stessi e con gli altri.

Da Rieti prima tappa per arrivare a Cittaducale: allora si inizia davvero. Intorno colline morbide, colori di inverno, c’è il sole, da socchiudere gli occhi, poi lo abbraccia il cielo e scoppia in rosso e oro. Un bosco di silenzio se non per i nostri passi incerti, un sentiero che si apre in campi aperti, fatichiamo a trovare la strada; dentro ad un tramonto che porta con sé un sottile struggimento proseguiamo, sta per imbrunire, arriviamo a Cittaducale con il buio. Siamo alloggiati per la notte in una stanza messa a disposizione dal comune. E visto che siamo pronti a tutto, ci si adatta molto bene, freddo e bagno minimal non spaventano nessuno: siamo entrati nel luogo spartano e all’insegna della precarietà di un condiviso vivere essenziale.

Tra chiacchiere vivaci e concerti notturni degni della migliore orchestrazione - anche questo è condivisione … - si arriva al mattino. Nuovi passi ci aspettano, destinazione Borgo San Pietro. Siamo tanti, diversa l’andatura, ci consentiamo giustamente un’autonomia nell’andare, anche per economizzare i tempi e ridurre le attese, per poi ritrovarci nelle soste. Come? Beh, pellegrini moderni – ahinoi o per fortuna … - ringraziamo di certo per il bel tempo che ci accompagna e … i cellulari. Si sbaglia strada (anche si segue la guida "Con le ali ai piedi" di Angela Serracchioli, a volte le indicazioni sono poco chiare e mancano i segnali, ma dopo qualche tentativo ecco un bel sentiero nel bosco, un po’ selvaggio, tra rami e rovi, si va, fiduciosi, sembra non si arrivi da nessuna parte.

Ma è la filosofia del cammino, l’incerto accettato con serenità. Ripetute consultazioni, poi scelta unanime – si fa per dire, ma si deve pur provare, in caso si torna indietro – ed ecco il paese di Pendenza, da cui si risale fino a Capradosso, poi Casa Bianca. Tutto asfalto pesante per i piedi già stanchi, rimpiangiamo il bosco, e la discesa non è poi così indolore; il panorama prima monotono, chiuso, un po’ piatto, si apre nella inattesa e mutevole valle del Salto, con il suo lago; ora Petrella, poi Borgo San Pietro.

Fa freddo, siamo ospiti delle suore di Santa Filippa. Calzante metafora della vita, camminare a lungo in queste esperienze la svuota e al contempo la riempie, richiede un particolare impegno per essere altro da sé, per sollevare lo sguardo fuori e, in questa nuova attenzione, come anche nella solitudine, in qualche modo riuscire “ad amare la propria sorte”. E così forse se si parte pesanti, con lo zaino che è tutto ciò che siamo e il poco che in realtà ci serve davvero, il dono del cammino è misteriosamente quello di sentirsi mano a mano più leggeri nella libera gioia di esistere. Momenti di sconforto, aspettative deluse, dinamiche di gruppo che a volte non facilitano gli incontri, modi diversi di porsi, affinità che portano ad avvicinarsi, scoperte e istanti di bellezza, nel contatto con la terra che ci ridimensiona, nei piccoli momenti che sanno di pienezza … questo e altro ancora, dentro un cammino.

Da Borgo San Pietro lo sappiamo già che sarà tutta salita per arrivare a Santa Lucia di Fiamignano, ci scalderemo, grazie– diciamo così – alla fatica e all’amico zaino sulle spalle, la casa che portiamo con noi. Asfalto sempre poco gradito, lo sguardo corre nella valle aperta, il paesaggio si fa ampio, grandioso, strati di montagne come di altri mondi, si respira forte. Poi la neve, attesa, nuova di luce, intatta al passo; lasciamo orme, da una fessura si fa strada l’idea che come neve al sole si scioglieranno in noi nodi ruvidi e scomposti. Dall’alto di solito si deve scendere, prima o poi, e così è: scendiamo lungo un sentiero cespuglioso e panoramico, poi ancora strada asfaltata per arrivare a destinazione.

Alloggeremo presso la chiesa, proprio in chiesa, riadattando la disposizione dei banchi sui quali parte di noi dormirà. La chiesa è povera, come il piccolo paese, che, più di altri che abbiamo intravisto, è lontano da noi, fermo in un tempo sconosciuto, vecchio e senza cura, ma a suo modo ospitale, come noi cittadini “avanti” non sappiamo essere. Per il giorno successivo la guida segna 28 chilometri, in gran parte su strada, infatti tutta la prima parte sembra non finire mai, uguale a se stessa, siamo comunque un po’ dentro la storia, resti romani, di vita antica e battaglie lo testimoniano.
Chi vuole sceglie poi un percorso alternativo in mezzo alla neve, bello, sembra quasi una piccola festa, un’alternativa giocosa che ci porta in uno spazio aperto tra le montagne. Ci fermiamo per il pranzo sulla neve e i proprietari di una piccola casa ci offrono tutto ciò che hanno in un’ulteriore dimostrazione di calda e disinteressata accoglienza, dove una generosa gratuità che poco pratichiamo e conosciamo ci sorprende sempre un po’. Si scende poi lungo questo famoso tratturo in gran parte innevato con un panorama che cattura lo sguardo e poi ancora strada asfaltata in una discesa sulla quale le gambe camminano da sole e i pensieri sembrano fatti di vento.

A Villagrande di Tornimparte siamo accolti dal gentile signore della pro loco che ci fa visitare con orgoglio la chiesa di San Panfilo dove alcuni semplici dettagli in pietra e dei dipinti riportano allo spirito artistico del tempo. Si dorme in una scuola, le stanze pulite per l’occasione, riscaldate. Siamo ormai abituati, siamo in cammino da poco in fondo, eppure – strano concetto il tempo – come lo fossimo da sempre e queste fossero le naturali e consuete condizioni di vita. Quello che manca al lato pratico – certo tutti vorremmo una bella doccia e cose pulite … - sembra perdere di importanza.

Mentre acquista significato l’aspetto personale, emotivo, relazionale, di ricerca: un cammino condiviso è anche questo, esserci non solo per se stessi. Arriva l’ultimo giorno, i chilometri non sono moltissimi, ma impieghiamo più del previsto: non importa, il percorso è bellissimo, mutevole dentro i passi e gli occhi, sembra di arrivare in cima al mondo, come superstiti cui è concessa un’impensabile opportunità. Sotto l’Aquila, città che chissà verrà più risvegliata da un sonno pauroso. La Basilica di Collemaggio è immensa e disastrata, il freddo sembra anche quello dell’abbandono e del destino infausto che può colpire ovunque. Privilegiati noi. Sono quasi le sei quando si riprende la strada di casa.

Nel buio della notte che confonde, amplifica e non consente di ricollocare coerentemente ricordi e sensazioni, i pensieri si rincorrono come uccelli migratori su rotte antiche. Il tempo della strada. Il pellegrinaggio, lo chiamiamo. La vita, se è più di una parentesi. Leggo le profetiche e per me amorevoli parole di Raimon Panikkar (riferite certo a ben più rischiosi cammini): “Quando l’esperienza che questo pellegrinaggio è una via di non ritorno irrompe in te, scopri che tutte le tue conquiste storiche sono insignificanti, che il senso della Vita non si esaurisce nella storia ma respira con il cosmo e va oltre, verso il divino. E ti rendi conto che il cammino è verso nessun luogo, che è ora e qui, e che ogni passo – che è insieme il primo e l’ultimo – è il compimento del pellegrinaggio”.
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